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I Draghetti avevano cinque arti, due anteriori e tre posteriori. Se la loro ontogenesi embrionale rispecchiava la filogenesi, le due gambe dirette in avanti si erano sviluppate dalle pinne pelviche di un antenato acquatico, e quella rivolta all’indietro, più robusta, da una coda di pesce. Invece le braccia non derivavano da pinne, come negli umani, bensì da una complessa serie di ossa che anticamente sorreggevano le branchie.

Le mani possedevano solo tre dita, ma la loro specie era approdata lo stesso al calcolo decimale (utilizzato nei radiomessaggi) grazie ai dieci piccoli tentacoli che contornavano l’apertura boccale, due paia sopra, sei sotto. In quel momento Zethus li stava usando per portare alla bocca un fiocco di zucchero filato che Gillian gli aveva passato attraverso un breve condotto. Siccome gli occhi erano affossati dentro cavità ossee, i Draconiani non erano in grado di vedere i propri tentacoli; per cui, se volevano sfruttarli come pallottoliere, dovevano farlo tramite l’immagine mentale che ne avevano.

Il precedente Expo 67 aveva un sottotitolo che ben presto era apparso orribilmente sessista: “L’uomo e il suo mondo”. L’attuale Expo non aveva un sottotitolo, che Don sapesse, ma “L’umanità e i suoi mondi” sarebbe stato perfetto.

Anche perché si era finalmente tornati sulla Luna, e su Marte si era stabilita una piccola colonia internazionale.

Poi c’erano altri mondi che non erano di competenza dell’umanità. Erano 18,8 anni esatti che Sarah aveva mandato la sua risposta ai Draconiani, dando ricevuta del loro messaggio e spiegando che il suo successore si sarebbe premurato di far nascere i due “figli delle stelle”. Il che significava che più o meno in quell’istante l’amico di penna su Sigma Draconis II stava ricevendo il segnale di Sarah. Già ci si immaginava le celebrazioni per l’evento; e per non essere da meno, si era deciso di festeggiarlo anche sulla Terra, quella notte stessa. Un segnale poteva essere inviato nello spazio a qualsiasi ora, ma per spirito poetico si preferì attendere che in cielo comparissero le stelle. Per quanto l’inquinamento luminoso avrebbe cancellato dalla vista umana la patria dei due Draghetti.

Alla cerimonia sarebbe stato scoperto un monumento a Sarah Halifax, immortalata con l’aspetto che aveva nel 2009, anno della ricezione del primo messaggio. Statua che, alla chiusura dell’Expo, sarebbe stata collocata in modo permanente ai Laboratori di fisica McLennan. Subito dopo l’inaugurazione, non solo Amphion e Zethus (che avevano inviato rapporti settimanali, dei quali però nessuno era ancora pervenuto a destinazione) ma anche i rappresentanti di tutte le decine di Paesi presenti alla Fiera avrebbero spedito una cartolina di auguri verso Sigma Draconis.

Il traffico era moderato, così che nel giro di mezz’ora la Dragomobile era arrivata a destinazione. Negli ultimi vent’anni Don era tornato spesso a Toronto a trovare i nipoti, oltre alla recente, tragica circostanza dei funerali di Carl, scomparso a soli settantadue anni. Ogni volta che ci veniva, compiva il pellegrinaggio che stava ripetendo anche adesso, ma per Gillian e i ragazzi era la prima volta.

Guidando lungo Park Home Avenue, Don notò con disappunto che era sparita la biblioteca a cui era così affezionato. La stessa sorte, ovviamente, era toccata a gran parte delle biblioteche del mondo; ma da questo punto di vista lui era un po’ retrogrado, tanto che usava ancora un palmare anziché farsi impiantare collegamenti neuronici alla Rete, come avevano fatto Leonore e Gillian.

Parcheggiò il furgone nel cimitero... altro anacronismo... il più vicino possibile alla tomba di Sarah. I ragazzi infilarono le maschere, e tutti percorsero a piedi i metri che mancavano, facendo scricchiolare le foglie secche sotto i piedi e gli arti.

Don aveva portato un mazzo di fiori virtuali, con batteria a fusione a freddo; le olo-rose potevano durare quasi in eterno. I ragazzi, di solito chiassosi, compresero che il padre aveva bisogno di un po’ di silenzio e glielo concessero. Qualche volta, a venire qui, Don si sentiva sopraffatto dalle emozioni, al ricordo dei primi appuntamenti con Sarah, dei primi anni di matrimonio, e tanti aneddoti di quando Carl ed Emily erano bambini, e la bufera di quando Sarah aveva decodificato il primo messaggio... Ma adesso l’unico ricordo era quello, di quasi vent’anni prima, di quel mitico sessantesimo anniversario, quando lui si era chinato su un ginocchio di fronte a sua moglie. Lo fece anche adesso, per posare i fiori. Sarah continuava a mancargli ogni giorno della sua vita.

Poi si rialzò e osservò la lapide, rileggendo l’iscrizione. Lo spazio accanto era ancora vuoto. L’epitaffio che aveva predisposto per se stesso, NON RIMASE MAI CON UNA O ALL’ULTIMA MANO, era meno lirico di quello di Sarah, ma rendeva l’idea.

Qualche secondo dopo, si voltò verso Leonore. Lei sapeva che un bel giorno Don sarebbe venuto a riposare in pace qui, non accanto a lei: che sensazione le dava? Leonore, che con gli anni aveva perso le lentiggini sostituendole con delicate striature, gli lesse nel pensiero e gli diede una pacca sulla mano. — Non preoccuparti, tesoro. Tanto, quelli della mia generazione non vengono più interrati.

Questo posticino te lo sei comprato, ed è giusto che lo usi... un secolo o l’altro.

“Un secolo o l’altro.” Magari nel XXII, o nel XXIII, o...

L’epoca delle meraviglie e dei miracoli. Scuotendo la testa, si rivolse ai tre figli.

Sarah non rappresentava nulla di speciale per Gillian: solo la prima moglie del padre, una donna scomparsa anni prima che lei nascesse, e con la quale non condivideva nessun tratto del DNA. Non che Sarah avrebbe dato peso alla cosa; però non esisteva in società un nome specifico per definire i rapporti tra la sua prima moglie e la figlia avuta dalla seconda moglie.

Del resto non esisteva neppure un termine esatto per indicare il legame tra Sarah e i due alieni; eppure, senza di lei, loro non sarebbero mai esistiti. Amphion esaminava perplesso i quattro nomi incisi sulla lapide, “Sarah Donna Enright Halifax”, e doveva stare pensando le stesse cose, perché domandò: — Come devo chiamarla?

Don ci rifletté. “Mamma” non sarebbe stato carino: la madre era Leonore.

“Professoressa Halifax”? Troppo formale. “Signora Halifax” in teoria non era concorrenziale, perché Leonore aveva conservato il proprio cognome da nubile, come era ormai nell’uso. “Sarah” suonava troppo familiare. Don fece spallucce. — Non sap...

— Zia Sarah — suggerì Leonore, che in vita l’aveva sempre e solo chiamata “professoressa Halifax”.

I Draconiani non potevano annuire per mancanza di collo, ma Amphion eseguì il lieve inchinò che era stato convenuto per quei casi. — Grazie per averci portato a conoscere zia Sarah. — Teneva un occhio su Don e tre alla lapide.

— A lei sarebbe piaciuto un sacco conoscere voi — disse Don, sorridendo a tutti e tre i figli.

— Peccato che non l’abbia potuta incontrare di persona — disse Zethus.

— Era una donna unica — rispose Don.

Gillian si rivolse a Leonore: — Anche tu l’avevi conosciuta, no, mamma?

Lavoravi nello stesso settore. Che tipa era?

Leonore guardò Don, poi di nuovo la figlia. Pensò al termine più appropriato, poi, sorridendo in direzione del marito, rispose: — Troppo oltre.

Ringraziamenti

Molti studenti dei miei corsi di scrittura creativa sono diventati effettivamente scrittori, ma nessuno aveva il talento di Robyn Herrington, la carissima amica a cui è dedicato questo romanzo. L’avevo incontrata la prima volta nel 1996 a Calgary alla convention di fantascienza “Con-Version”, e nel ’97 avevo incluso una sua poesia nell’antologia Tesseracts 6, curata da me e mia moglie Carolyn. Robyn ha quindi partecipato ai miei workshop al Banff Centre nel 2000 e 2001, realizzando racconti che si possono trovare, ad esempio, in tre delle antologie curate da Mike Resnick: Return of the Dinosaurs, Women Writing Science Fiction e New Voices in Science Fiction. Robyn ci ha lasciati nel 2004 dopo una lunga lotta contro il cancro; su sua richiesta, ho letto ai funerali l’elogio funebre che lei stessa si era preparata. Il concetto alla base di questo romanzo è opera sua: ringrazio Robyn e suo marito Bruce Herrington per avermi permesso di utilizzarlo e svilupparlo.